Incantare, ossia pronunciare ad alta voce una formula magica. Fu un incantesimo davvero potente, quello che fondò la Tuscia. L’Invisibile vi si manifestò in tutta la sua forza. Tanto che da queste parti ancora ne risuona l’eco: rimbalza da lassù, dai borghi fioriti e luminosi in cima ai loro pianori, arrampicati ciascuno alla sua rupe; fino dabbasso, laggiù, sul fondo dei burroni. La formula magica fu sillabata. Rigorosamente ad alta voce. E vennero i vulcani che sputarono lave. Poi venne l’aria che le raffreddò. Poi venne l’acqua che – goccia a goccia – scavò le rupi in gole ripide e profonde, lussureggianti e pittoresche. Per l’appunto, incantate.
 I torrenti si cercarono e infine si trovarono, scolpendo un paesaggio di acrocori e calanchi carichi di mistero.

Cielo assoluto alto sopra le teste, ombra e frescura in fondo ai borri. E infine venne l’uomo e desiderò abitarvi. Con la saggezza dei contadini, le comunità impararono a governare le acque, irrigando campi fecondi, tirando su fontane e fontanili. Con la pazienza degli artigiani, seppero intagliare l’informe roccia in pietra squadrata, facendone case e campanili. Con l’amore di un giardiniere, si presero cura dei profili dei borghi, portandoli letteralmente a fiorire dal loro paesaggio, mettendone in mostra la bellezza straordinaria e misteriosa. Ciascun paese la propria luce, inconfondibile. Dove fu il tufo dorato, dove il grigio peperino.

E fu così Tuscia incantata.

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